Filastrocca della Felicità

Un sorriso sulle guance
occhi grandi come arance.
Tanta voglia di far festa, 
tutti a bordo della giostra. 
Sei contento, sei felice
la tristezza ora tace. 
Sei felice, sei contento
questo cuore è un gran portento.
Quand’è allegro, lui saltella
cantan pure le budella.
E ora musica, maestro!
Fai baldoria, fai un canestro!
Gioco, corro e non mi stanco 
è la gioia che ho qui dentro.
Leggerezza ed allegria
io non dormo, euforia!

C’era una volta… FELICITÀ

Ovvero, quando una scuola cupa e triste diventò gioiosa e festante

“SCUOLA DELL’IN FELICE ZIA” si leggeva sul cartello. Il nome della scuola, in realtà, era “Scuola dell’Infanzia Felice Letizia”, ma le intemperie avevano usurato la scritta, cancellandone alcune lettere, sicché le persone si erano abituate a chiamarla “Scuola dell’infelice zia” e nessuno ricordava più quale fosse il nome originario, né si domandava chi fosse stato tale Felice Letizia. Le bambine e i bambini non avevano la minima idea del fatto che Felice, di nome, Letizia, di cognome, era stato un uomo buono e generoso, che aveva donato molti dei suoi averi ai bisognosi e fatto costruire quella scuola, tanto che in seguito la giunta comunale decise di intitolarla a lui come segno di riconoscenza. Anziché pensare a un benefattore, immaginavano che un tempo ci vivesse una donna sola e triste, una zia per l’appunto, che magari nessuno andava più a trovare, e che pure i nipoti, per chissà quale motivo – con tutta probabilità, un litigio tra grandi – non si fecero più vedere, e la zia diventò sempre più sola e sempre più triste, oltretutto chiusa dentro una scuola. Una vera disgrazia, insomma.

Niente di tutto ciò, ovviamente, eppure quella era diventata per chiunque la Scuola dell’infelice zia, e nessuno considerava di sostituire il cartello, men che meno Giustino, il bidello, che arrivava per primo, col suo ombrello sgangherato, quando fuori c’era ancora buio. Intorno e sopra alla scuola pioveva sempre, il lunedì, il martedì, il mercoledì, il giovedì, il venerdì, il sabato e la domenica. Anche quando non si andava a scuola. E pioveva al mattino, pioveva al pomeriggio, pioveva alla sera. C’erano giorni in cui pioveva anche dentro la scuola, e Giustino giurava di sentire, prima che entrassero gli alunni, le pareti sussultare, come se singhiozzassero. Apriva il cancello con uno sguardo spento e l’espressione malinconica, si trascinava per i corridoi fino al ripostiglio, infilava un grembiule grigio, lasciava chiuse tutte le tapparelle: a che serviva, in fondo, la luce?

Fuori di luce non ce n’era mai, dei nuvoloni cupi oscuravano il cielo e si era smesso pure di fare l’intervallo, a metà mattinata si mangiava solo una minuscola merendina senza sapore, ogni giorno la stessa, uguale per tutti, tutto l’anno. Il cortile non era mai stato utilizzato, nessuna bambina aveva voglia di correre dietro al pallone, a nessun bambino veniva in mente di saltare la corda o giocare a prendere. L’unico a presidiare quello spazio sempre vuoto era Enrico, un ragnetto grigio di piccole dimensioni che aveva piazzato la sua ragnatela in un angolino sotto la tettoia: da lì poteva osservare i musi spenti varcare la soglia della scuola. In quel momento il cortile era attraversato dalla maestra Ester e dal maestro Ismaele: «Buongiorno, Ismaele» disse la maestra Ester con un filo di voce. «Buongiorno? Oh niente affatto, Ester» rispose il maestro Ismaele affranto, senza nemmeno rivolgere lo sguardo alla collega, «Questo non è un buon giorno: mi sono svegliato col mal di testa, il caffè era finito e la macchina non partiva». «Non dirlo a me» ribatté Ester, «una gomma della mia bici era a terra, e come se non bastasse mi è spuntato un brufolo in mezzo alla fronte».

Alle otto in punto, all’ingresso, il muso lungo di Elia incontrò quello lunghissimo di Miriam, i due si salutarono con un cenno di mano, non avevano voglia di parlare. Elia stava per mettersi a piangere, ma nessuno ci fa faceva più caso, succedeva almeno una decina di volte al giorno. Si infilarono i grembiuli, grigi anche quelli, ed entrarono in classe. Quando la classe fu al completo, la maestra Ester disse: «Da oggi ci sarà un nuova alunna, ma dato che è una giornataccia, lascio a lei le presentazioni». «Buongiorno care compagne! Bentrovati cari compagni!» esordì la nuova alunna, con un tono di voce squillante. «Sono così elettrizzata di conoscervi e cominciare la mia avventura in questa nuova scuola! Ah, quasi dimenticavo: il mio nome è Felicità!». Felicità? Che strano nome, pensarono tutti. E mentre Felicità raccontava cosa le piaceva, dove era stata e chi aveva conosciuto in precedenza, i compagni, assorti nel racconto, non si accorsero che i nuvoloni nel cielo erano spariti.

Fu proprio lei, Felicità, a farlo notare: «Maestra, più tardi possiamo andare in cortile?» chiese all’insegnante. In cortile? Più tardi? Quella sì che era una buona idea! Una giornata come non si era mai vista a scuola! Non si poteva aspettare oltre! Le bambine e i bambini iniziarono a sentire un fremito nelle gambe, fino a non riuscire più a tenerle ferme. Anche la scuola – e questo sì, lo notarono tutti – fece un sussulto, una specie di risata, per scrollarsi di dosso l’acqua e il grigiume. L’intera classe, capitanata dalla maestra Ester, in meno di un minuto stava percorrendo il corridoio in direzione del cortile, e dietro di loro, come un corteo, si accodarono le altre classi. Vennero consultati dei meteorologi per capire come fosse possibile che fino a quel giorno avesse piovuto a dirotto, mentre nelle settimane successive il sole splendeva alto nel cielo e illuminava il cortile, da cui si levavano schiamazzi, risate e scie di colore. L’angolino di Enrico, il ragnetto, era diventato meglio del cinema! Si vedevano tutte le cose divertenti che succedevano lì sotto. Ora i ragni erano così tanti che avrebbero potuto fare anche loro qualche gioco a squadre! Nessun esperto, però, aveva saputo fornire una spiegazione convincente.

«Secondo me, è merito tuo» aveva detto Felicità a Giustino, che nel frattempo sembrava ringiovanito di vent’anni: cantava, fischiettava, indossava un grembiule giallo sgargiante e, quando nessuno lo vedeva, si metteva a ballare con la scopa. La scuola era sempre pulita e in ordine, e si era persino deciso a sostituire il cartello: finalmente la scritta riportava il nome intero “Scuola dell’Infanzia Felice Letizia”! «In che senso, merito mio?» aveva chiesto Giustino dubbioso. «Il mio primo giorno di scuola qui» spiegò allora Felicità, «avevi alzato un pochino le tapparelle. Il sole si è fatto coraggio, voleva venire a conoscerci! E da quando le tapparelle sono su su fino in cima, la classe è inondata di luce e tutti sono pieni di voglia di fare!». Il maestro Ismaele lesse molti libri sulla vita di Felice Letizia e raccontò a ogni classe la vita dell’uomo, aggiungendo che quella era diventata la scuola più allegra di tutta la città!