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Vieni a scoprire la storia di Amore
Filastrocca dell'Amore

C’era una volta… AMORE
Ovvero, quando in città cominciarono a volersi bene
Al primo piano del condominio, c’erano due appartamenti, uno a sinistra e l’altro a destra. Erano fatti nello stesso modo: oltrepassato l’ingresso, c’era il salotto, poi la cucina, un bagno e infine due camere da letto. Si potrebbe dire che erano due appartamenti identici, solo che uno era a destra e l’altro a sinistra. E solo che in quest’ultimo viveva la famiglia Biancardi, mentre nel primo la famiglia Nerelli. La famiglia Biancardi amava il bianco e aveva deciso di colorare le pareti di bianco e arredare tutto di bianco, il divano, gli armadi, le piastrelle, i tappeti, le tende, persino le pentole erano bianche. Forse perché la famiglia Biancardi beveva solo latte e mangiava solo riso in bianco. La famiglia Nerelli, al contrario, adorava tutto ciò che era nero e aveva riempito la casa di questo colore, i mobili, le coperte, i cuscini, la vasca da bagno, persino i soffitti erano neri. Si vestivano tutti di nero e probabilmente potete immaginare di che colore fosse il loro umore…
«Il nostro palazzo è uno degli edifici più lussuosi ed eleganti della città» aveva sentenziato con orgoglio l’amministratore di condominio durante una riunione, «È opportuno mantenere un certo decoro! Da domani gli zerbini dovranno essere dello stesso colore. Quale scegliete?» chiese. «È ovvio: il bianco!» risposero i Biancardi. «Neanche per idea: dovranno essere neri!» ribatterono i Nerelli. Le due famiglie, in effetti, non perdevano occasione per battibeccare, e ogni giorno trovavano un motivo per darsi contro. Ma se prima erano solo screzi, la questione degli zerbini li mandò su tutte le furie, e iniziarono a bisticciare come non si era mai visto.
La signora Timpani, che era diventata un po’ sorda, li sentì fino alla fermata del tram, mentre aspettava che passasse il 27, quello che portava in Piazza Centrale. Il tram arrivò gremito di persone, come sempre, e la signora Timpani dovette farsi largo, come sempre, infilandosi tra la gente, con il suo passo lento e il bastone saldo in mano. «Lo sapevo» pensò tra sé e sé, «nemmeno un posto a sedere per le mie gambe stanche e traballanti» proseguì fissando con una smorfia di disapprovazione un ragazzino seduto poco più in là. Il tram era così affollato che non ci sarebbe entrato più nemmeno un cane. E difatti Labro e il signor Fulvio avevano optato per una passeggiata. Anche se, a vedere come il guinzaglio strattonava l’uomo, si sarebbe detto che i due, più che a spasso, fossero nel mezzo di una corsa ad ostacoli! «Piano, Labro, piano!» strillava il signor Fulvio. «Possibile che il mio cane non mi ascolti mai?».
Fulvio avrebbe voluto fermarsi a bere un caffè al bar, ma con Labro che tirava e correva, annusava ogni cosa e si infilava dietro le siepi e dentro i portoni, concedersi una pausa era impossibile, e a nulla servivano i richiami. Portare fuori il cane lo faceva rientrare a casa furioso e sfinito. Nel bar, d’altra parte, non si sarebbe rilassato più di tanto; Evaristo aveva nell’ordine: rovesciato un cappuccino, bruciato due toast, perso tre scontrini, messo la maionese in un croissant e la crema pasticciera in un panino e servito vino rosso al posto di una spremuta. Era furioso, quel giorno non ne azzeccava una e, in preda a un nervoso che più nervoso non si poteva, dava rispostacce a destra e a manca.
Non che davanti al condominio dei Nerelli e dei Biancardi – nel frattempo Labro aveva trascinato Fulvio fino a lì – le cose fossero tornate a posto: un giovane sosteneva di aver visto per primo l’ultimo posto libero, ma ormai una ragazza ci si era infilata con la sua auto sportiva e non voleva sentire questioni, il parcheggio era suo e il giovane avrebbe dovuto trovarne un altro. E via anche lì di urla e insulti, talmente forti che tutti si erano affacciati al balcone per vedere quel gran trambusto. Tra di loro, anche il nuovo inquilino, trasferitosi da poco all’ultimo piano. Sul suo campanello c’era scritto “Amore”.
«Domani andrò a fare un giro dell’isolato, per scoprire cosa offre il quartiere» si disse. La mattina seguente, accadde, però, qualcosa di veramente prodigioso: al passaggio di Amore, sul pianerottolo del primo piano i volti cambiarono espressione e… «Ho trovato! Ho trovato!» esclamò uno dei Biancardi. «Faremo degli zerbini bianchi e neri» rispose uno dei Nerelli, «come una scacchiera!». Amore sentiva ancora dietro di sé l’esultanza per l’accordo trovato, quando vide con la coda dell’occhio un ragazzino affabile alzarsi dal suo posto sul tram 27 per cederlo alla signora Timpani, che ricambiò sorridente con una caramella.
Davanti al bar regnava un’atmosfera ridanciana, sembrava di stare in spiaggia. Certo, Evaristo qualche pasticcio lo combinava comunque, ma i clienti ormai si erano affezionati a lui anche per questo. La risata più fragorosa arrivava dal tavolino in cui il signor Fulvio, insieme ad alcuni amici, gustava un caffè, mentre lì accanto Labro condivideva una merenda con qualche compagno di scorribande. E che dire dei litiganti per il parcheggio? Quasi si stava verificando il contrario: le persone dovevano insistere affinché l’altro prendesse il posto, era tutto un «Ma si figuri!», «Ci mancherebbe!», «Non c’è problema, lo cerco più avanti».
Amore si guardava intorno: che fine avevano fatto gli attaccabrighe del giorno prima? Semplice: erano su una panchina, a gustare un gelato, con gli occhi a forma di cuore! «Non ti ho ancora chiesto il tuo nome!» disse Sibilla, la ragazza, con aria trasognante, anche se si era già presentata dieci volte. «Che bel nome, Zeno! Io sono Sibilla» provò a rispondere lui, un po’ confuso, «Ehm, cioè, volevo dire, che bel nome, Sibilla! Io sono Zeno. È che quando inizia a batterti il cuore per qualcosa o… per qualcuno, vien voglia di sorridere tutto il giorno!»
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